Assalto a Capitol Hill: metà dei repubblicani mette ancora in dubbio l’elezione di Biden
di Claudio Del Frate // Corriere della Sera
Un sito legato all’università della Virginia ha analizzato le dichiarazioni di 552 candidati: solo 77 riconoscono in pieno il risultato delle presidenziali 2022. «Clima dannoso per le istituzioni»
«No, la grande bugia non se ne è andata»: un titolo laconico e diretto. A due anni dall’assalto degli ultrà trumpiani a Capitol Hill, metà dei candidati repubblicani alla recente tornata elettorale di fine 2022 resta convinta che l’elezione di Joe Biden non sia stata del tutto trasparente se non frutto di una vera e propria truffa. Eccola, «la grande bugia», come l’ha definita l’osservatorio «Crystal ball», legato all’università della Virginia, che monitora le dichiarazioni dei politici americani. Ed è stato proprio l’osservatorio a giungere alla conclusione . Sorprendente non tanto nei contenuti quanto nelle dimensioni.
«Cristal ball» ha messo sotto la lente di ingrandimento le parole pronunciate da 552 esponenti del Grand Old Party che erano in lizza per la Camera, il Senato, un posto da governatore o da procuratore generale nelle elezioni del 2022. Quasi la metà di loro (221 per la precisione) ha rilasciato dichiarazioni, con uno spettro che va dal dubbio all’aperta negazione, in cui sembrano non riconoscere in pieno la vittoria di Joe Biden alle presidenziali. Solo 77 candidati repubblicani hanno invece apertamente accettato il verdetto delle presidenziali 2020. Tutto questo ad onta del fatto che decine di ricorsi respinti, ma anche le affermazioni del vice di Trump Mike Pence o dell’allora ministro della giustizia William Barr abbiano pienamente confermato il responso delle urne.
Nonostante l’attaccamento alla «grande bugia» i candidati negazionisti non hanno avuto difficoltà a raccogliere fondi per la loro campagna elettorale: l’osservatorio segnala che «quasi 500 milioni di dollari sono stati ottenuti da 192 candidati che hanno negato completamente i risultati».
Entrando più nel dettaglio, gli analisti notato che su 368 candidati che mettono in dubbio la vittoria di Biden, 221 sono stati eletti. Di questi, 138 sono negazionisti «in toto». Tre stati (Oklahoma, West Virginia e Wyoming) hanno mandato al Congresso solo rappresentanti che credono nella «grande bugia». «Affermazioni infondate di frode elettorale – commentano gli autori del report – sono state usate nelle campagne e utilizzate come strumenti per gli sforzi di raccolta fondi e sono particolarmente dannose per le istituzioni democratiche quando si traducono in tentativi di rimodellare le leggi sul voto che creano accesso e diritti divergenti e contribuiscono a crescenti minacce violente contro gli scrutatori elettorali».
Come sarà il Twitter di Musk? Tre scenari (non bellissimi)
The Atlantic // Newsletter // Corriere della Sera
(a cura di Gianluca Mercuri)
E ora che Elon Musk si è ufficialmente preso Twitter, come cambierà il social network non certo più popolare, ma per molti versi più influente nella sfera del discorso pubblico? L’utopia dell’uomo più ricco del mondo — «ideologicamente liberista e libertario, allergico alle regole, che ha già detto di voler rivoluzionare la piattaforma, eliminando ogni limite all’accesso sulla base di un’interpretazione radicale del free speech», ha scritto Massimo Gaggi su Corriere della Sera — renderà davvero la piattaforma più simile alle sue premesse e promesse fondative, quella di essere «l’ala più favorevole alla libera espressione del partito della libera espressione»? E un eventuale ritorno di Twitter al far west espressivo servirà perlomeno a contrastare, se non impedire, la dittatura del politicamente corretto che preoccupa molti osservatori? Oppure — paradossalmente — rilancerà la necessità di quella cultura, non certo nei suoi eccessi e fanatismi (la cancel culture) ma nel suo obiettivo originario di paladina delle minoranze?
Sono interrogativi attorno ai quali gira molto del futuro delle democrazie, perché della democrazia toccano ogni nervo cruciale: trasparenza/opacità, libero confronto/manicheismo, libera espressione/propaganda nefasta. Nel caso di Twitter, in particolare, tutto gira attorno al tema della content moderation, il controllo dei contenuti che portò il social a estromettere Donald Trump con una decisione talmente enorme da occultare il resto, gli anni di spazzatura riversata su tutti i social, e il fatto che i social e tutta la Rete siano in mano a pochi stramiliardari. È questo, per esempio, l’aspetto al centro di una delle analisi dell’Atlantic affidata a una dottoranda di Harvard: «Una manciata di persone — per lo più uomini e per lo più nella Silicon Valley — decide se i media russi possono avere account social, se un post controverso sul coronavirus debba essere amplificato o rimosso e se l’ex presidente degli Stati Uniti perderà la sua linea più diretta con il pubblico globale», scrive Evelyn Douek sul sito di Atlantic. Purtroppo, siccome l’umorismo di Giorgio Gaber è applicabile su scala planetaria, sembra che il controllo dei contenuti sia una cosa di sinistra — e infatti dell’esclusione di Trump gioì la sinistra mondiale — e il laissez-fare sia anche qui di destra, e infatti «molti a destra credono di essere ingiustamente presi di mira dai dirigenti di sinistra della Silicon Valley e possono festeggiare un Twitter più a ruota libera se Musk si sbarazza di molte delle sue regole». Non a caso, la sua scalata è stata sbloccata al Congresso dal pressing del Partito repubblicano.
Ad approfondire le conseguenze della presa di Musk, sempre sull’Atlantic, è però Charlie Warzel, un esperto che alla moderazione di contenuti si dedica da anni. Gli scenari possibili, a suo avviso, sono tre, e il più probabile un mix tra i primi due.
Lo scenario cupo
È quello in cui Twitter rinuncia a qualsiasi filtro e controllo e, diciamo così, riapre le fogne. In questo caso non sarebbe libero di tornare solo Trump, il più noto tra gli «agenti del caos», ma qualcosa e qualcuno di ancora più estremo ed estremista: «Molti altri account verrebbero reintegrati, forse anche quelli di molestatori seriali e venditori di teorie della cospirazione. Ma il modo migliore per pensare allo scenario più cupo non è quello di concentrarsi su ogni singolo account, ma di pensare all’effetto aggregato», quello della piattaforma che all’improvviso «si inonda di tutta la spazzatura tenuta a bada per un po’».
C’è anche una sotto variante dello scenario-cupo, ed è lo scenario cupissimo: «Quello in cui l’uomo più ricco del mondo gestisce una piattaforma di comunicazione in un modo veramente vendicativo e dittatoriale», ovvero «come strumento politico per promuovere programmi di estrema destra e per punire quelli che lui chiama liberal avvelenati nel cervello». È uno scenario che i più pessimisti temono anche per i risvolti sulla privacy — che farebbe un uomo così mal disposto dei nostri dati personali, e dei nostri messaggi diretti non criptati? — ma che Warzel giudica improbabile perché «scatenerebbe una rivolta degli attuali dipendenti, che dovrebbero essere sostituiti da gente che condivide i valori di Musk». Ecco il famigerato politically correct che, nella sua versione originaria di vigilanza democratica e non in quella degenerata di censura occhiuta, ci salva un po’ tutti.
Lo scenario strano/caotico
È quello che vede Musk interessato soprattutto agli esperimenti per «democratizzare» Twitter. Quello più probabile è l’edit button, il pulsante che consentirebbe di modificare i tweet, su cui ha lanciato un «sondaggio» che ha visto a favore tre quarti dei rispondenti. In questo quadro, il miliardario farebbe continue prove all’insegna del «Twitter appartiene al popolo. Stiamo riportando Twitter all’open internet», con tanto di hashtag #decentralizedtwitter. Tutte mosse che potrebbero avere sviluppi o non averne affatto, in base a un’«etica del rompere le cose» fondamentalmente populista che destruttura e ristruttura in base a canoni apparentemente spontanei e invece pilotabili a seconda di umori e preferenze del controllore in capo (se vi vengono in mente il grillismo e Rousseau siete sulla buona strada). Warzel: «L’etica del rompere le cose è quella a cui penso di più quando considero un Twitter di proprietà di Musk: un sacco di costruzioni veloci, lanciando merda contro il muro, con pochissima considerazione delle conseguenze».
In questo scenario avrebbero spazio anche i buoni propositi di Musk sulla trasparenza dei processi interni al social, a cominciare dall’intenzione di rendere open-source gli algoritmi di Twitter e dunque le modalità in cui i contenuti vengono promossi o rimossi. Tutto molto bello, se non fosse che l’«opacità» degli algoritmi serve anche a renderli inespugnabili dai malintenzionati (siano neonazisti, agenti putiniani o semplici spammer).
Lo scenario «ritorno al passato»
Ecco il mix dei primi due che va considerato l’esito più plausibile. A renderlo tale è il fatto che molti dei cambiamenti che Musk suggerisce sono già stati tentati (o applicati) da Twitter, e che la sua visione è alquanto distorta dall’avere 80 milioni di follower. È facile che un uomo dalle mille passioni possa rapidamente stufarsi di Twitter e rinunciare a tutti i propositi innovativi se non a quello più semplice: farlo tornare al 2016. «Non sarebbe una buona cosa», dice l’esperto. E spiega perfettamente perché: «Twitter nel 2016 era un posto spesso orribile, soprattutto se eri una donna, un ebreo, una persona di colore o un membro di un qualsiasi gruppo minoritario. Perché Twitter è ancora un posto orribile, ma con molti più strumenti — come l’impostazione su chi può vedere o rispondere ai tuoi tweet — che le vittime di molestie possono impiegare. Alcuni sembrano aver dimenticato che le molestie più sfacciate e vili passavano praticamente senza controlli».
Beninteso: Charlie Warzel non immagina un Twitter che sotto Musk venga «magicamente trasformato in una cloaca totale di odio, molestie e false informazioni». Ma immagina un degrado progressivo che possa accelerare all’improvviso, in cui «si vedano più molestie mirate alle donne, alle persone di colore e alle comunità LGBTQIA». Immagina una «direttiva organizzativa» che esautori di fatto i team di Trust and Safety — i moderatori di Twitter — e renda molto più complicato colpire gli account che ne violano le regole. «L’attenzione di Twitter nel dare priorità alle “conversazioni sane” non sarà solo attenuata, ma apertamente derisa come una sorta di sogno irrealizzabile». In quest’ottica, il nichilismo e lo shitposting tornerebbero insomma a spadroneggiare.
Il 2016 era l’anno in cui l’Isis poteva ancora postare le sue decapitazioni, in cui i neonazisti avevano ampio spazio, in cui il 90% delle segnalazioni di abusi non trovavano risposta. La previsione di Warzel suona quindi piuttosto pessimistica, forse troppo. Elon Musk direbbe che un ritorno a questi orrori è impossibile, e che innovare vuol dire trovare il massimo della libertà espressiva e il massimo della protezione degli utenti. «Ma sappiamo assolutamente cosa succede quando Twitter allenta le sue regole»: succede che «diventa molto più facile molestare e farla franca».
Il punto è Musk incarna perfettamente la vaghezza del Twitter originario, quando era uno strumento comunicativo indefinito e indefinibile per definizione. Jack Dorsey, il fondatore, diceva che «Twitter ti avvicina». Quando gli chiedevano «a che cosa», rispondeva che «sono i nostri utenti a finire la frase per noi». È uno spirito totalmente alla Musk, ci avverte questo grande esperto americano, «uno spirito che ha una comprensione superficiale dei modi in cui la piattaforma modella le dinamiche sociali, politiche e culturali, e uno strano disprezzo per le sfumature nel pensare a questi temi. È anche uno spirito guidato dalla spavalderia e dall’arroganza, nel pensare di essere abbastanza intelligenti da risolvere l’enigma — incredibilmente spinoso — di come si possa democratizzare il discorso pubblico mantenendolo al tempo stesso sano».
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